L'effetto Zeigarnik e il portare a termine un progetto


Non so quanti possano trovarsi nella mia situazione, ma io appartengo a quella categoria di persone che ha sempre il naso in mille progetti, che alterna il lavoro sull'uno e sull'altro, che vive con almeno due taccuini in ogni stanza, che non dimentica l'entusiasmo e la curiosità che ognuno di essi costantemente le provoca ma che può anche giungere a non sfiorarne alcuni per tempi lunghissimi, perché imprevedibilmente e pienamente assorbita da altri.

Sono sempre stata in un certo senso affezionata a questa mia caratteristica, eppure ho appena letto una cosa che mi obbliga a rivedere i benefici e i vantaggi effettivi di essa.

Ho infatti scoperto che esiste, in psicologia sperimentale, il cosiddetto "effetto Zeigarnik" (dal nome della psicologa russa che per prima ne condusse gli esperimenti relativi e giunse a codificarlo). In poche parole, si tratta della tendenza che ha la nostra mente a ricordare meglio e più a lungo un'azione o un compito, nel caso in cui essi siano stati interrotti. 
Non riuscire a portare a compimento qualcosa che avevamo progettato verrebbe quindi memorizzato meglio perché non si è placata la tensione del 'fare'.

In effetti, io ricordo benissimo ognuna delle vie che negli anni avevo pensato-tentato-iniziato a percorrere, dal punto di vista professionale, ma A QUESTO PUNTO mi chiedo se la tendenza assoluta che possiedo al 'rimuginare' (sul rimuginio ho intenzione di tornare moltissime volte, in questo luogo, ma già sappiamo tutti quanto sia deleteria e autodistruttiva tale propensione della psiche...) non sia in parte dovuta - o collegata - a questa mia difficoltà/ritrosia nel 'portare a termine' qualcosa.

Le righe e le pagine che qui si trovano sono appunto la mia iniziale lotta a questa difficoltà/tentazione dell'animo. Ho deciso, ad un certo punto, di lottare. 
Ancora una volta, una decisione.

(Del resto, i punti #12 e #13 della mia lista-manifesto sono i primi che avevo abbozzato quando iniziava a maturare l'idea di questo progetto)


Come riconoscere una buona decisione


Anni fa un'amica mi regalò uno di quei libri che - da eterna ed indomabile appassionata di narrazioni e letteratura - ho sempre disdegnato: il libro-manuale, quello che colleziona trucchi e strategie per portare il lettore a raggiungere un determinato scopo e che dispensa le sue perle di saggezza ai comuni mortali.

[OPS! Non mi sto forse ritrovando a fare qualcosa di simile qui, io? Sarebbe proprio meglio essere meno categorici ed intolleranti nei propri giudizi... anzi, quasi quasi vado ad aggiungere un altro punto alla mia lista...]

Dunque... dicevo...

La 'bellezza del riordino' (di cui prima o poi mi deciderò a scrivere l'inizio della storia) qualche settimana fa aveva annoverato fra le sue comparse appunto il manuale in questione. Nel senso peggiore: avevo deciso - amaramente riservando soltanto ad esso, tra il quasi-migliaio-di-libri che possiedo, tale destino - di indirizzarlo nella raccolta della carta.

Ciononostante...

... ho un marito che è un accumulatore seriale (il partner sulla carta peggiore per chi avesse deciso di avviarsi sulla via del minimalismo e dell'organizzazione inappuntabile di una casa): si affeziona agli oggetti, persino a quelli non suoi. Tralasciando le evidenze - ahimè innumerevoli - di come questa sua attitudine, lungi dall'essere soltanto una 'debolezza affettiva', abbia salvato l'economia della famiglia, evitando di dover correre a (ri)acquistare oggetti che egli aveva amorevolmente e spesso di nascosto sottratto alle mie grinfie e che, in momenti successivi ed impensati, si sono poi rivelati indispensabili... sì, insomma, tralasciando tutto ciò...

... "Sei proprio sicura di volerlo buttare, quel libro? A me sembra interessante"
"E' pieno di massime new-age, di consigli per la meditazione, lo sai che non è roba che fa per me"
Tuttavia, ho permesso che stazionasse (il libro, non mio marito!) sul divano per qualche giorno. Forse per dargli un'ultima opportunità. Quella di farmi capire di che pasta fosse fatto.
Poi l'ho preso in mano, persino astiosa nei suoi confronti. Perché non si era lasciato espellere riporre nella carta straccia come avrebbe dovuto. Perché aveva fatto gli occhi dolci a mio marito, sperando così di salvarsi.
E mi sono ricordata che, all'epoca in cui l'avevo ricevuto in dono, sfogliandolo distrattamente ero rimasta colpita da un paragrafo. Un unico paragrafo. Sono andata a cercarlo e l'ho ritrovato.
E quindi, per quel solo paragrafo, ho deciso di tenerlo. Ho salvato il mio vecchio e mai-amato libro per poche, pochissime righe. Quasi una redenzione in punto di morte.

Eccole.

"Una decisione è buona quando nasce dalla vita; è cattiva quando nasce solo dalla testa. E quando nasce dalla testa, non è mai categorica, è sempre un conflitto. Le alternative rimangono ancora aperte e la mente continua a spostarsi da un lato all'altro. Il corpo è sempre qui e ora, la mente mai: e questo è il conflitto. [...] Quindi il corpo rimane nel presente, ma la mente continua a saltare tra passato e futuro, e tra i due avviene una frattura. [...] Per via di questa frattura, nascono ansie e tensioni." (Osho)
Ne sono certa: le buone decisioni sono quelle che nascono dalla vita, che si impongono al modo in cui conduciamo le nostre giornate o vorremmo condurle. Che sovrastano persino ogni progetto, pensato e calcolato.

Essere felici è una decisione. La migliore. Perché è un'azione, generata da attitudini e comportamenti, non un pensiero creatosi nella mente.